Nel 1993 le edicole erano ancora il cuore pulsante della diffusione dei fumetti in Italia. Le fumetterie cominciavano a diffondersi, ma era dietro i banconi delle rivendite di giornali che si scoprivano davvero le novità, grazie a collane e iniziative editoriali che garantivano una visibilità capillare. In quel contesto, ACME Edizioni lanciò la collana ACME Comics, portando sugli scaffali opere di grande impatto. Tra queste spiccava Fritz il gatto di Robert Crumb, un volume che ancora oggi rappresenta una pietra miliare per chi ama il fumetto d’autore.
Io allora frequentavo il quinto anno delle superiori, animato da una passione per l’arte che cercavo di coltivare anche attraverso i fumetti. Ricordo bene il giorno in cui, nell’edicola sotto casa, vidi per la prima volta quel volume. Non avevo mai letto le storie di Fritz, ma conoscevo la fama del personaggio e del suo autore, considerato il vero capostipite del fumetto underground americano, colui che aveva saputo trasformare la controcultura in linguaggio popolare. Sapevo anche del film di Ralph Bakshi, che però non mi aveva colpito particolarmente.
Sfogliare quel libro fu invece un’esperienza folgorante: le tavole di Crumb, con il loro segno nervoso, quasi scheggiato, il tratteggio irregolare, mi rivelarono un approccio al disegno completamente diverso da quello che insegnavano alla scuola del fumetto. L’imperfezione diventava stile, l’eccesso linguaggio, la provocazione un’arma artistica. E poi c’era Fritz, il gatto antropomorfo esagerato, vizioso e viziato, specchio deformante di un’America inquieta, satira feroce della sua società e dei suoi costumi.
C’era solo un ostacolo: il prezzo. Diecimila lire non erano poca cosa per uno studente senza lavoro, tra spese di benzina per il motorino e altre pubblicazioni da seguire. Ma la passione, si sa, merita sacrifici: lo acquistai, e non me ne pentii. Dentro trovai non solo storie già viste nell’edizione integrale pubblicata anni prima da Milano Libri, ma anche un’aggiunta decisiva: l’episodio della morte di Fritz (anticipazione che all’epoca suonava come uno “spoiler” inatteso). In più, il volume conteneva sketch e una storia inedita mai arrivata alla pubblicazione.
Quella lettura fu per me una rivelazione. Nel segno di Crumb trovai la libertà espressiva che stavo cercando, una lezione di stile e di coraggio artistico. E ancora oggi, ripensando a quel periodo, ringrazio la ACME e la stagione irripetibile dei primi anni Novanta, quando in edicola si poteva trovare non solo intrattenimento, ma autentica cultura a fumetti.